Poetry Therapy Italia

011 pierro

I Diari di Sylvia Plath, la tesi di laurea sulla “terapia poetica”, poi le pratiche di poesiaterapia. Dario Fieni, psicologo, psicoterapeuta e poetaterapeuta, intervistato da Chiara Pent, approfondisce quanto “Parlare bene” significhi “pensare bene e stare bene”. Non tutti gli psicologi sono pronti per questo cambiamento ma Fieni e la Pent, affermano quanto sia vitale “nutrire il pensiero che incontrerà i pazienti”.

Chiara Pent: Buongiorno Dario, ci racconti com'è nato il tuo interesse per la Poetry Therapy, una vera e propria passione direi, visto che è stata argomento della tua tesi di laurea dal titolo “Terapia poetica. Teoria e sua applicazione nel Nord-Ovest d’Italia”?

Dario Fieni: Buongiorno Chiara! È nata un po’ per caso. Sono da sempre stato un bibliofilo accanito. Un giorno ho letto i Diari di Sylvia Plath e tutto è cambiato. Mi continuavo a dire, meravigliato, che la poetessa americana aveva usato la scrittura come forma di cura. Ho iniziato a mettermi alla ricerca di informazioni sull’uso della poesia in terapia e sono entrato in possesso di Poetry Therapy di Nicholas Mazza. Da lì poi non ho mai smesso di studiare l’argomento e di provare, nel mio piccolo, a parlarne e a metterlo in pratica.

CP: In quegli anni (che anni erano?) hai avuto dei maestri ispiratori e dei compagni di viaggio che ricordi con particolare affetto?

DF: L’anno in cui ho iniziato ad appassionarmi alla poetry therapy è stato il 2003. Senza alcun dubbio debbo citare la mia correlatrice della tesi, Clara Capello, docente per lungo tempo presso l’Università di Torino e donna squisita. Ha scritto dei libri stupendi, te ne cito due: Il giardino segreto. Far poesia nell'adolescenza e Il sé e l'altro nella scrittura autobiografica: contributi per una formazione all'ascolto: diari, epistolari, autobiografie.
In queste ultime due decadi ho conosciuto tantissimi professionisti del sociale (sono stato consigliere del mio Ordine professionale per 6 anni e ho collaborato con svariate realtà del territorio piemontese) e posso dire con certezza che il mondo della scrittura e della letteratura applicato in chiave terapeutica è frequentato da persone stupende.

CP:  Puoi dirci qualcosa ancora del tuo lavoro di ricerca: il tuo approccio è stato filosofico oppure clinico? Quali parti della tua tesi ritieni siano particolarmente attuali e perché?

DF: Ti rispondo brevemente. Mi sono laureato nell'A.A. 2004-2005. La mia tesi aveva l’obiettivo di capire quali realtà della Salute Mentale impiegavano, nel nord Italia, la poetry therapy o strumenti affini. Per questo ho contattato tutti i Servizi pubblici e le grosse Cooperative delle zone interessate. Il mio approccio è stato sia filosofico che clinico ma direi che la parte predominante è stata quella umana. Ho conosciuto prima di tutto delle persone, e poi delle tecniche. Ho notato che ogni territorio e ogni realtà aveva propri modelli, propri rituali ma un'unica costante: una grande apertura verso le emozioni e l’altro.

CP: La poetry therapy mi sembra di aver capito che è stato un “tuo amore di gioventù” (perdonami l'espressione vintage) e che si è trasformata in una fedele compagna e alleata nel tuo lavoro. È così?

DF:  Nel mio studio, subito dietro la mia poltrona (rigorosamente vintage), campeggia una macchina da scrivere, una Underwood del modello utilizzato da, ovviamente, Sylvia Plath. Questo per dire che il mio lavoro è impregnato di poetry therapy.
Sono convinto che esprimere i propri pensieri attraverso parole a cui si cerca di dare una forma stabile, lineare e bella, sia il modo più potente che abbiamo per lavorare su noi stessi. Possiamo considerare la letteratura come la prima forma di psicoterapia inventata dall’essere umano? Io sono convintissimo di sì. E lo sto dicendo un po’ ovunque. Quel bisogno di farsi capire dall’altro e lasciare una traccia del proprio pensiero, non è anche la base del modello freudiano? Quella necessità di rendere palesi e comprensibili le nostre emozioni per comunicarle all’altro e raccontare una storia, la propria storia o quella della nostra famiglia o della nostra società, non è uno dei prerequisiti della psicoterapia? Farsi capire per capirsi.
Se ci pensate nella storia del genere umano la comparsa della scrittura ha avuto varie funzioni. Certamente quella di tramandare saperi e tradizioni, ma anche e soprattutto di riuscire a esprimere sentimenti quali paura, rabbia, gelosia o felicità.

CP: Hai introdotto il tema della “parola che cura” parlandone al passato e allora ti chiedo: come vedi il presente?

DF: Questa funzione della scrittura si sta oggigiorno perdendo sempre di più. Ma una società di persone che leggono e scrivono e comunicano le proprie emozioni, ascoltandosi e immedesimandosi nell’altro, non sarebbe splendida e migliore?
Credo che il vento stia cambiando e il bisogno di nuove relazioni, anche a causa di questa crudele pandemia, sia tangibile e porterà a un nuovo modo di comunicare con l’altro. Noi, amanti della poesia e persone sensibili, dobbiamo solo dare una piccola mano affinché questa nuova società prenda il sopravvento. Che dite, ci armiamo di versi e belle frasi?

CP: Dopo questo breve excursus storico e questo altrettanto sintetico excursus teorico, ci fai degli esempi di come lavori con i tuoi pazienti? Cosa proponi loro e che varietà di risposte ottieni?

DF: Questa domanda è difficilissima ma provo a risponderti nel modo più schietto possibile: sono i miei pazienti a darmi la direzione. Io sono solo uno strumento. Provo a spiegarmi.
Nelle terapie individuali, in genere al terzo colloquio, dopo aver raccolto la storia della persona e aver discusso con essa quali possono essere i nostri obiettivi terapeutici, gli dono un piccolo quadernetto e dico che lo potranno utilizzare, se lo vorranno, come meglio desiderano. Alcuni ci scrivono sopra sogni o pensieri. Altri lo usano come fosse un diario. Altri ancora proseguono sui fogli bianchi il dialogo interrotto nella seduta passata. Non tutti i miei pazienti decidono di utilizzarlo per la terapia. Un mio vecchio paziente mi ha rivelato candidamente che il mio quadernetto è diventato un quaderno di ricette di cucina. E, confesso, trovo che anche questo utilizzo sia meraviglioso (e terapeutico?). A ogni modo, una volta che la persona ha deciso come impiegarlo, cerco di dare un senso alle parole scritte attraverso un lavoro comune. Le parole sono importanti, diceva qualcuno. Io dico che le parole non sono mai casuali e ci dicono come pensiamo. Le scegliamo, tutte, mai a caso e quindi bisogna capire il perché usiamo alcuni modi di dire, aggettivi o avverbi o il perché strutturiamo le frasi in un modo anziché in un altro. Bisogna vedere ogni sfumatura e osservare come, nel corso della terapia e quindi di un grande cambiamento, anche il nostro eloquio e le parole usate da noi cambiano.

Altra cosa è, invece, l’uso che faccio della poetry-therapy nel lavoro in gruppo e di coppia. In questo caso la scrittura ha una funzione più dialogica, ovvero serve per comunicare con se stessi e con l’altro cosa si sente, si prova e si desidera. Inoltre le regole grammaticali e le diverse forme di narrativa, se impiegate in modo giusto e appropriato, sono utili per riuscire a rappresentare con l’altro delle alternative comportamentali e comunicative.

Vi faccio un esempio, immaginate di dover raccontare a qualcuno una vostra triste esperienza passata. Non è facile riuscire a trovare le giuste parole e a superare le difficoltà emotive ma, una volta fatto, starete meglio, vi sentirete più liberi e capiti.
Immaginate ora di farlo voi per l’altro e, cioè, di raccontare l’esperienza che un’altra persona ha vissuto, riuscendo a cogliere e a descrivere tutto ciò che può aver provato. Sentire dalla bocca di qualcun altro la descrizione del proprio stato d’animo ridimensiona, da un giusto peso, ci permette di non sentirci soli e ci consente di capire quanto il nostro dolore o la nostra felicità! La parola scritta o letta o declamata ha un potere unico, spesso troppo poco considerato.

Per quanto riguarda l’insegnamento, alcuni seminari li ho focalizzati proprio sulla poetry-therapy. Non è facile far comprendere ai giovani aspiranti terapeuti, soprattutto all’inizio quando smaniano dalla voglia di sapere il più possibile della pratica del nostro lavoro, quanto sia importante sapere armeggiare bene la scrittura e la letteratura.

CP: “Quando finalmente riesci a raccontarti, allora sei salvo” sei d’accordo con questa affermazione?

DF: Assolutamente d’accordo perché credo fermamente che saper raccontare se stessi e farlo bene non sia (solo) legato a una questione estetica. Parlare bene significa pensare bene e, aggiungo, stare bene. Riuscire a descrivere all’altro cosa si prova implica essere stati in grado di capire cosa si prova. E non è mica una cosa semplice. Solo una persona in equilibrio, nel bene e nel male, è in grado di farlo.

CP: Il mio psicoterapeuta non era interessato alla poesia e ne' io ne' lui sapevamo dell'esistenza della poetry therapy, nonostante ciò ho, per mia spontanea iniziativa, introdotto la poesia nel percorso di cura. Ciò premesso ti chiedo: per te c'è poesia nella psicoanalisi? La poesia può essere di aiuto alla psicoanalisi? Nella tua esperienza di terapeuta a orientamento psicoanalitico in che misura e in che modo la poesia in quanto accesso all'inconscio facilita la relazione?

DF:  Ho letto con molto interesse il tuo contributo alla rivista (Poesia-aiuto per la psicanalisi. Parte 1-  e Poesia-aiuto per la psicanalisi parti 2-3-4 ndr) e trovo che tu abbia espresso perfettamente come la poesia possa riuscire ad avvicinarci a quelle parti di noi stessi con cui abbiamo smesso di dialogare. Alle volte sono quelle parti sofferenti che o abbiamo rimosso oppure abbiamo distorto. Perché è importante dirci che noi siamo mutevoli ma siamo quel che siamo anche grazie a ciò che siamo stati. E dobbiamo capirlo, capirci e accettarci per quello che siamo. Spesso si guarda al nostro passato come se fosse lontano o diverso da noi. Soprattutto l’adulto nei confronti di se stesso piccino. La poesia non solo è d’aiuto alla psicoanalisi ma può essere davvero lo strumento in più per raggiungere la giusta consapevolezza. Tantissimi psicoanalisti lo hanno capito, da Antonino Ferro a Thomas Ogden da Donald Winnicott a Harry Stack Sullivan, per citare solo alcuni dei miei preferiti.

CP:  Grazie, personalmente ho avuto occasione di conversare su poesia e psicoanalisi con la Dott.ssa Barbara Valli dell'Associazione Dina Vallino. C'è una frase che ricordo, che risuona nelle tue risposte, con la quale vorrei concludere questa nostra intervista: “Scrivere, leggere, frequentare la poesia, può essere per uno psicoterapeuta un nutrire il pensiero che incontrerà i pazienti e li aiuterà a sviluppare il proprio raccontarsi”.

 

Dario Fieni è psicologo e psicoterapeuta. Ha collaborato con diverse realtà del sociale nel territorio piemontese ed è stato per sei anni consigliere dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte. È insegnante in una prestigiosa scuola di formazione per psicoterapeuti di orientamento psicoanalitico. Da sempre interessato all’uso della scrittura e della letteratura in psicoterapia, ha condotto numerosi gruppi, rivolti a tutte le fasce di età, di poetry therapy.

 


 

chiara pentChiara Pent, vive e lavora Torino, ha due figli meravigliosi ed un simpatico coniglio. Dopo la laurea in scienze politiche indirizzo internazionale, ha partecipato ad iniziative di aiuto umanitario durante le guerre nei Balcani: nei campi profughi, al seguito di convogli e nella città assediata. IZET SARAJLIĆ ha detto: “Non compete al poeta cercare la poesia, ma alla poesia cercare il proprio poeta e trovarlo” e Chiara, sospesa tra i due mondi, della poesia e della psicanalisi, sente vera questa considerazione del grande poeta sarajevese.
» La sua scheda personale.